DALLA PUNTA ALL’AFFONDO

di Franco Fussi

L’altra sera, a teatro, un anziano spettatore commentava gli scroscianti applausi alla fine del primo atto con un paziente e rassegnato, ma lucido: “Esageràti! ŠMa è pur ver che non ci sono più le voci di una volta, guarda che fatica che fannoŠ”. Lui ricordava i Martinelli, le Stignani, i cantanti “con la canna”, non gli urlatori di oggi, “ché se hanno voce piccola non si sentono, e se hanno voce grande sono sgarbati”.
In due parole aveva fatto la differenza tra due filosofie dell’emissione vocale, coincidenti anche a due epoche del canto e a due modi di far didattica: la ricerca della “punta” e della “maschera”, cioè una impostazione che ricerchi soprattutto il cesello dell’articolazione vocale ed il senso di direzionalità e di posizione del suono, da un lato, e la ricerca del “corpo” del suono, il senso del volume e dello spessore dell’emissione, dall’altro. Che, in termini fisico-acustici, significa anche, nel primo caso, l’esaltazione dell’intensità della nota fondamentale, per sovrapposizione su di essa del primo rinforzo formantico e l’innalzamento in frequenza dei picchi formantici (quindi voce più brillante), contro, nel secondo caso, l’assemblaggio di formanti superiori in un prevalente rinforzo armonico sui 3000 Hz detto “formante del cantante” e l’abbassamento in frequenza dei picchi formantici (quindi timbro più scuro).
I contestatori delle tecniche cosiddette “di affondo” diranno che cantar forte è facile, e che si deve imparare il legato e a cantar piano senza spoggiare, quelli che diffidano delle tecniche di “immascheramento” diranno che in teatro la voce non è mai abbastanza e che una voce senza “polpa” non ha espressione.
Da un punto di vista storico-vocale questa è anche la dicotomia che separa i repertori barocchi e belcantisti da quelli melodrammatici e veristi, così come sul versante pedagogico si differenziano scuole di canto che prediligono una impostazione basata sulla ricerca delle posizioni nei risuonatori da quelle che cercano subito il rinforzo del volume.
Ma certamente esiste anche un possibile equilibrio tra i due versanti, una possibile loro integrazione. Nessuno altrimenti avrebbe mai cantato bene Norma, Rigoletto e Traviata.
Penso sempre che in base alla categoria vocale di appartenenza, alle caratteristiche anatomofisiologiche del soggetto, al repertorio e all’ambito tonale che sta cantando, possano esserci delle prevalenze d’azione di una o dell’altra delle facce della medaglia, ma che sempre entrambe debbano essere compresenti e in relativo equilibrio tra loro. Certamente una voce piccola rimarrà tale, ma l’applicazione in essa di tecniche di affondo, almeno integrative e riservabili alla prima ottava, a costruire quello che potrebbe essere didatticamente definito un vero suono “misto”, potrebbe essere una soluzione per rendere più completa e “teatrabile” una voce, come d’altro canto un maggior lavoro sulle posizioni, per imparare a cantar piano senza spoggiare, sia un utile allenamento anche per grandi gole che hanno vita facile nell’esaltare il volume dell’emissione con l’affondo. Ed allora forse si formeranno ancora i Martinelli e le Stignani, i tenori dalla voce eroica e nobile, che eseguano bene sia l’aria che la cabaletta, che sappiano fraseggiare, variare le dinamiche senza spoggiare, legare e farsi sentire, i soprani di corpo drammatico che sappiano eseguire una messa di voce senza schiacciare i suoni e senza mostrare separazioni tra i registri. In una parola, come diceva l’anziano spettatore, che non siano sgarbati.
Non vedo antitesi precostituita tra i due filoni didattici, dipende solo a quale organo (fisiologicamente parlando) si applicano, in che ambito tonale, per quale categoria vocale, un insieme di ragioni per le quali non è produttivo ergere palizzate o rivendicazioni di metodo di canto. Il canto è uno. E cento le possibilità di bilanciamento dell’emissione. Il canto è qualcosa che facciamo, non qualcosa che abbiamo, e i risultati migliori si hanno quando esiste una applicazione combinata delle componenti che ci danno il senso della direzione e del volume, bilanciate poi a piacimento e, soprattutto, in base alle necessità del repertorio e della tipologia vocale di appartenenza.
Gli errori più grossi si commettono quando uno dei due filoni viene assolutizzato ed esasperato su tutta l’estensione, configurando da un lato voci querule che nasalizzano o “aprono” troppo i suoni e “spoggiano”, e, dall’altro, voci che si ingolfano, appesantiscono l’emissione e il vibrato, fino al ballamento, calano e “sbracano”. Così come le tecniche di proiezione in maschera possono essere equivocate “nel naso”, con costante posizione a sorriso o elevazione del labbro superiore e facilitate da vocalizzi sulle /i/, quelle di affondo possono essere pensate come esclusivo allungamento del tubo di risonanza, quindi abbassamento estremo del laringe nel collo e vocalizzi sulle /u/, abbinate a una respirazione basata solo sull’appoggio diaframmatico senza sostegno addominale (cioè costante spinta in basso e in fuori dell’addome con conseguente collassamento sternale).
Ad ogni buon conto, il mutamento di gusto nell’ascolto del canto lirico, dall’epoca della “flessibilità della gola”, del virtuosismo settecentesco e del belcantismo, all’epoca del tenore di forza, dell’ipertrofia romantica e verista del suono che riempie il teatro, coincide con lo sfruttamento sempre maggiore delle sonorità dette “di petto” e sembrerebbe perciò accreditare le tecniche di affondo, il mezzo più idoneo a irrobustire il registro grave della voce e i suoni della prima ottava, fisiologicamente meno udibili con altre tecniche.
L’estensione delle tecniche di affondo anche a repertori “belcantisti” viene infatti giustificato dal mutamento storico-estetico della vocalità come tecnica, e quindi dal cambiamento dei gusti vocali del pubblico, per il subentrare delle caratteristiche del repertorio verista, delle necessità acustiche delle strutture teatrali, dell’innalzamento del diapason, della moltiplicazione degli strumenti in orchestra, delle necessità delle case discografiche, della sensibilità uditiva dell’ascoltatore, alterata dall’odierno grado d’inquinamento acustico ambientale e dalle abitudini stesse di ascolto (amplificatori, microfonia, ecc.).
L’impostazione vocale che sfrutta oggi sapientemente gli atteggiamenti insiti nelle “tecniche di affondo” è di derivazione melocchiana (Melocchi fu maestro, tra l’altro, anche di Mario Del Monaco), e di essa si possono considerare epigoni in vario grado -con caratterizzazioni didattiche personali- maestri quali Venturi, Billard, Menicucci (di quest’ultimo è di prossima pubblicazione un trattato di canto proprio sulle tecniche dell’affondo); la summa di tale impostazione può essere ricondotta all’aforisma del cercare il suono in basso, concentrando attenzione e lavoro dell’allievo in settori dell’apparato fonatorio che permettono di esaltare gli armonici gravi della voce, quindi il colore scuro, e sfruttare al massimo il rinforzo armonico detto della “formante del cantante”: il colore e spessore sonoro risultante danno quella sensazione di scavo, di profondità appunto, di “canna” e “polpa” al suono, da cui appunto -descrittivo della sensazione fisica del cantante e acustica dell’ascoltatore- il suggestivo termine di affondo.
Le tecniche dette “di affondo” collegano in genere l’abbassamento della laringe, contrastante l’istintiva risalita laringea durante una gamma tonale ascendente, alla prevalenza dell’appoggio respiratorio rispetto al sostegno, e sono volte a sviluppare e rinforzare le fasce muscolari ipogastriche, cioè addominali inferiori, che vengono delegate a essere base d’appoggio e fulcro per il sostegno del diaframma.
E non solo. In base all’impronta pedagogica più o meno generalizzata, sembra che il beneficio di tale emissione di affondo possa essere esaltato dall’abbassamento controllato e consapevole di tutti gli organi componenti l’apparato vocale e quindi, a seconda dei maestri, anche mandibola, lingua, labbro superiore, spalle, clavicole. L’ancoraggio della laringe alla base del collo, un arretramento ed un abbassamento pronunciato della mandibola, la concentrazione della respirazione su un appoggio in area ipogastrica o epigastrica e lombare, sono l’icona visibile del cantante che “affonda”.
Una differenza fondamentale tra tecniche di “punta” e tecniche “di affondo” sembra dunque essere collegata anche ad un diverso modo di intendere l’appoggio e il sostegno respiratorio durante l’emissione. Le voci che prediligono l’azione di sostegno al diaframma, la cosiddetta spinta in dentro della parete addominale durante l’emissione, la “fontanella gastrica” del Garcia per intenderci, possiedono in alcuni casi maggiore agilità, maggiore prontezza, maggiore propensione a soddisfare le esigenze musicali dei compositori dell’epoca d’oro del belcanto. E vi sono particolari repertori operistici che traggono sicuramente vantaggi dal sostegno addominale, repertori con orchestre contenute e linee melodiche ricche di agilità, ruoli leggeri e personaggi di “mezzo carattere”, là dove sia necessario abbinare la “punta del suono” e l’agilità di emissione, sicuramente per molto del repertorio da Mozart a Rossini, ma anche le cabalette del primo Verdi.
Proprio nella scrittura vocale di personaggi di opere di un’età a cavallo tra reminescenze virtuosistiche e sguardo al futuro, riposa il culmine dell’equilibrio tecnico tra punta e affondo, riscontrabile in vocalità quali ad esempio Bjoerling e Pavarotti. E proprio questo essere la scrittura vocale a cavallo tra due possibili modi tecnici, o meglio rappresentarne il connubio, rende possibile la frequentazione di un personaggio, in maniera ugualmente credibile, da parte di vocalità tecnicamente sbilanciate verso l’uno o l’altro degli impianti, rendendo plausibili ad esempio due “modi vocali” tra loro distanti come Giuseppe Sabbatini e José Cura nell’interpretare il personaggio di Alfredo in Traviata; come furono distanti, ma sicuramente meno appropriati, Tagliavini e Del Monaco nel cantare la parte del Duca di Mantova nel Rigoletto.
Il problema rimane, come diceva l’anziano spettatore, quanta fatica fanno oggi e perché. Gli sforzi del cantante urlatore, sia che sia un propugnatore della “maschera”, della “punta”, della “proiezione alta” come di quello fedele alla ricerca del “corpo”, della “cavità” e dell’”affondo” si traducono infatti in una serie di visibili segni di sforzo fisico, mandibole che si lateralizzano o che tremano, sopracciglia che corruscano il volto, busti protesi, giugulari che si gonfiano e volti che si arrossano, toraci che si impiantano nel bacino, ecc. trasmettendo all’ascoltatore una certa sofferenza fisica, il senso di una fatica, rivelando tutta l’artificiosità e l’atletismo del gesto vocale. Come spie di un suo incoordinato espletarsi.
Eppure molti maestri di canto si preoccupano di affermare che cantare deve essere una cosa naturale, e che nessuno sforzo debba trasparire dal corpo del cantante, curando l’eliminazione di tensioni disordinate nell’emissione vocale stessa. Essi, tuttavia, concepiscono l’atto del cantare come atteggiamento globale e benchè raccomandino il rilassamento, non spiegano quale parte del corpo debba essere in tensione e quale in rilassamento. Sono in genere didatti perfettamente in grado di dimostrare una produzione rilassata nell’emissione di un acuto in fortissimo o in pianissimo, che viene vista dall’allievo con stupore e ammirazione. L’implicito o dichiarato suggerimento è che quello è il modo in cui dovrebbe essere emesso un suono. Ma in realtà il maestro che si limiti a questo sta mostrando o il suo talento personale e capacità di coordinazione naturale o la sua esperienza di tentativi, ed errori, attraverso i quali ha imparato a controllare e bilanciare le forze tensorie applicando la resistenza toracica ad una forte azione della muscolatura addominale.
Il cantante deve imparare ad eliminare le tensioni tramite pressioni controllate.
Pressione e tensione non sono sinonimi, la pressione è tensione bilanciata. Cantare forte o piano, acuto o grave, senza impiegare pressione è impossibile. Quando le tensioni sono eliminate, il risultante meccanismo bilanciato produce suoni che sembrano facili e rilassati. Un effetto comune a qualsiasi perfetto atleta ben coordinato. Ci si deve perciò ricordare che tutto, in campo artistico, è frutto di un artificio; più l’artista appare bilanciato e rilassato, tanto più è artificiale, in quanto ha appreso una disciplina di controllo di ogni muscolo del corpo per creare l’illusione di facilità e naturalezza. Senza tale disciplina fisica, il canto artistico non potrebbe esistere.
Se i maestri considerassero la loro esperienza come cantanti rammenterebbero di essere passati attraverso un periodo in cui le loro voci erano guidate da eccessive tensioni. Questo periodo è necessario nello sviluppo vocale di molti cantanti, poiché senza questo “sforzo” fisico non avrebbero mai imparato la disciplina muscolare che li rende in grado di conoscere e coordinare tra loro le forze di respirazione e quelle di fonazione. Dunque il canto è un atto principalmente atletico, e suggerire all’allievo di imitare il suono in maniera rilassata e naturale è un consiglio equivoco. E d’altro canto una tensione sbilanciata e forzata può arrecare danni alla voce. Nonostante tutti gli esercizi il concetto che residua al cantante rispetto all’adatto bilanciamento dell’emissione è sempre e solo una sensazione, l’immagine corporea e vibratoria della collocazione del suono dentro di sé e il corrispettivo autoascolto tramite il personale controllo uditivo. Tutte le lezioni di canto hanno lo scopo di rendere consapevole l’allievo del corretto bilanciamento tra pressione, tensione e resistenza, e la necessaria destrezza nel mantenere il bilanciamento tra pressione e resistenza senza tensione. Solo questo permetterà all’anziano spettatore, dalla vista ancora ottima, di non notare più la fatica e la sofferenza nel corpo nel cantante, ma solo quella tensione muscolare bilanciata che dona al canto il senso della naturalezza.